Marina Cassi intervista Bruno Manghi su La Stampa
Coniugare, coniugare. Mica si decide tutto quel che succede, le cose accadono». Bruno Manghi è uno di quei torinesi che non si montano mai la testa. E sorride sornione alla sollecitazione di riflettere sull’affermazione del sindaco che, l’altro giorno, ha detto: «La sfida di oggi è coniugare movida con industria».
Il tema non è nuovo, ma oggi con la crisi come si declina?
«Mi fa ridere l’idea che ci sia un’élite che decide».
Non è così?
«Quando mai. Torino è una città particolare, verticale: la grande azienda, il municipio. A Milano e in Veneto, invece, le cose le cambia la società. Qui si pensa che non sia così, invece anche qui certe cose, come un piano regolatore, le fa il pubblico, ma il resto avviene per conto proprio».
Che cosa significa?
«Dopo lo choc della crisi Fiat dell’80 e la fine di una certa politica politicante c’è stato il periodo dei sindaci e della loro macchina. Ci sono state le Olimpiadi e tanto altro. I soldi sono stati spesi bene. Questo è bello, ma non è un modello eterno».
Ma, ad esempio, in campo culturale e turistico la città può far nulla?
«Torino è una città che deve scegliere le cose originali».
Tipo?
«Tipo il Settembre Musica di Balmas negli Anni Settanta, un’autentica innovazione».
Un po’ lontana, nulla di più recente?
«Eataly, ci porto gli amici di fuori e sono tutti piacevolmente sorpresi. Le cose nascono da sole se c’è un certo clima: quando ero ragazzo qui è nata l’arte povera. Voglio dire che nel campo culturale i fenomeni arrivano se ci sono persone con stimoli, idee. E’ stato inutile due decenni fa portare il teatro in periferia, era noioso e non ci andava nessuno».
Viva la spontaneità, dunque, in campo culturale. Ma l’altro corno del problema è l’industria che oggi non se la passa proprio bene. Preoccupato?
«Per carità: noi torinesi siamo artisti della preoccupazione, siamo preoccupati per natura. Naturalmente è ovvio che una città che ha coltivato capacità organizzative nel mondo industriale possa avere problemi se non trova il modo di applicarle. Però vediamo di non disperarci».
No?
«No. Ho fatto da giovane la battaglia per difendere la Montefibre a Verbania; vivono molto meglio adesso che è chiusa. E vivono meglio nelle città venete che non hanno più gli stabilimenti tessili nel centro e vivono meglio a Vigevano che dopo aver fatto cappelli si è messa a produrre scarpe».
Crede davvero che ci possano essere passaggi epocali senza traumi?
«Credo che ci sia nella società una vitalità. E credo che dovremmo pensare al fatto, ad esempio, che i giovani non vengono a studiare a Torino. Poi è ovvio che mi preoccupo per i problemi sociali, per le sofferenze delle persone che scivolano in giù. Ma voglio ricordare un altro evento torinese importante nella sua storia recente».
Prego.
«C’è stato un momento nei tardi Anni Settanta in cui la tossicodipendenza dilagava, si rischiava il suicidio di una generazione. Ebbene: si è smesso di parlare di salario e ci si è occupati di combattere la droga. La società torinese ha questa capacità di reagire anche oggi, malgrado il tanto non profit che esiste ancora non sia entrato nell’élite dirigente».