Esiste un filone di ricerca sul giornalismo dell’innovazione. Il problema che propongo è semplice. Che cosa distingue il giornalismo dell’innovazione dal giornalismo tout court? La materia, si dirà. Ma questa materia ha delle implicazioni metodologiche molto importanti.
Perché se c’è qualcosa che distingue il lavoro giornalistico non è certo la tessera professionale o l’appartenenza a un giornale. È piuttosto la dedizione all’informazione con un preciso metodo caratterizzato da:
1. Servizio al pubblico (l’informazione è orientata all’interesse del pubblico, mentre la comunicazione è orientata all’interesse delle fonti, imho).
2. Prassi metodologica organizzata intorno all’ascolto critico delle fonti e alla verifica dei fatti.
3. Ricerca sulla struttura del linguaggio per migliorare costantemente la fruibilità dell’informazione in funzione dell’evoluzione dei media.
Nel caso del giornalismo dell’innovazione, il metodo giornalistico subisce necessariamente un’evoluzione. Perché in questo caso la verifica dei fatti serve a chiarire quanto siano attendibili i fatti accertati ma non basta a stabilire che un fatto appartenga al dominio dell’innovazione. La verifica che un fatto sia effettivamente un’innovazione non può che essere spostata nel futuro. Dunque, mentre è verificabile un fatto non è verificabile che quel fatto sia un’innovazione se non aspettando di vederne le conseguenze. Un’innovazione infatti non è solo una cosa nuova: è una cosa nuova che deve rispondere in modo nuovo a un problema specifico. Ma se non funziona per qualche motivo non è un’innovazione ma un fiasco.
Il giornalismo dell’innovazione deve dunque sviluppare un metodo specifico per decidere se un fatto vada annoverato nel campo dell’innovazione. Deve in sostanza prevederne le conseguenze.
Ci sono metodi buoni e meno buoni:
1. Si sceglie di stare con i frame dominanti. Dunque si decide che un fatto è innovazione se viene considerato tale dalla maggioranza degli osservatori e dagli altri media. Questo metodo presenta gravi difetti. Determina delle mode interpretative che portano a distorsioni gravi, come nel caso della bolla speculativa del 1998-2000.
2. Ci si limita a selezionare i fatti più importanti tra quelli che la comunicazione indica come innovativi. Il lavoro è orientato solo alla selezione e alla scelta delle fonti più importanti o credibili. Questo metodo offre alle aziende alle organizzazioni più importanti un potere immenso. Per esempio rende possibile che un fatto comunicato dal Mit o dalla Microsoft o da Nature appaia più importante per il giornalismo dell’innovazione rispetto a un fatto comunicato da un’università meno nota, un’azienda meno potente, una rivista meno importante. Le conseguenze possono essere altrettanto gravi.
3. Chi fa giornalismo dell’innovazione ha una sua struttura di ricerca, sviluppo e innovazione. In questo modo prova le novità che si presentano all’attenzione e riesce a distinguere attraverso la partecipazione all’ecosistema dell’innvovazione i fatti più rilevanti da quelli meno rilevanti, indipendentemente dalla fonte e dalla moda. Questo metodo appare nettamente il più efficace.
Scegliere il terzo metodo significa partecipare alla comunità degli innovatori. Significa elaborare una propria competenza pratica e su questa costruire un approccio critico. La partecipazione a diversi network di innovatori e a diversi progetti innovativi diventa in questo caso determinante. Il giornalismo dell’innovazione ha dunque bisogno di appoggiarsi a una struttura che unisce la competenza giornalistica a quella della ricerca e sviluppo. Un giornale dell’innovazione che alimenti un suo “laboratorio” può nel tempo diventare particolarmente efficace. Se sceglie questa strada, però, deve difendersi dalla tentazione dell’effetto nih: not invented here. Al di sotto di ogni giornalismo, specialmente del giornalismo dell’innovazione, l’umiltà e la passione del ricercatore sono elementi fondamentali per raggiungere il successo.