Senza quasi accorgercene siamo entrati in quella che alcuni definiscono la rivoluzione industriale del XXI secolo. Simpatica, divertente, inclusiva, la sharing economy è diventata parte della nostra vita quotidiana e sociale.
Al mare nella casa affittata su airbnb ci arrivo con blablacar, ceno in un casa privata trovata su gnammo dopo un giro in barca con sailsquare, i bambini li lascio alla babysitter trovata su gogojobo. Intanto conosco persone nuove, guadagno un po’ facendo qualcosa che mi piace e risparmio; anche l’ambiente con l’uso e il riuso.
Tutto bene quindi? Non proprio o almeno non sempre e non del tutto.
Le tasse, per esempio. Fermo restando che è tassata la cifra trattenuta dalla società sulla transazione tra utente e proprietario, che cosa ne è della spesa per cucinare e della prestazione del cuoco ancorchè casalingo?
E poi il reddito: sotto i 5000 euro non occorre fatturare, ma il compenso va ugualmente dichiarato tra i redditi percepiti. Una scocciatura non c’è che dire… La soluzione diffusa rimane quindi il contante non tracciabile.
Benvenuti tra i guastafeste, sì.
Ma non è solo questione di tasse. La raccolta e gestione dei dati rispetto alla privacy, anche per la localizzazione, per esempio, o la sicurezza, tanto più in campo alimentare ma non solo (Uber: ti faresti dare un passaggio da uno sconosciuto, senza essere certo che abbia controllato i freni?) e poi i temi della responsabilità in casi di infortunio, di furto o di altri eventi spiacevoli, l’affidabilità delle due parti.
Parliamo di lavoro, concorrenza, impatto sull’economia locale del territorio. Se queste piattaforme creino posti di lavoro o ne distruggano è un grande punto interrogativo. I lavoratori tradizionali saranno gradualmente rimpiazzati da lavoratori precari, poco tutelati, con guadagni molto scarsi e formazione lasciata all’iniziativa e al senso di responsabilità individuale.
Per molte questioni le piattaforme di sharing economy hanno elaborato risposte: chi impone un’assicurazione, chi ti informa che il cuoco improvvisato non ha interesse ad avvelenarti, poichè siede a tavola con gli ospiti, chi non dà compensi ma ‘rimborsi spese’, chi si appella allo spirito della condivisione in stile amicale, chi parla di re-immissione di denaro sul mercato, come leva di crescita.
Tutto vero ma l’economia delle condivisione presuppone un vero e proprio scambio di beni o servizi a valore inferiore a quelli di mercato, ancorchè si tratti di un passaggio tra persone, quindi con un possibile pregiudizio della concorrenza, tanto più sulle attività di prossimità.
La sensazione è che siamo ancora in un terreno assai sdrucciolevole e affrontato con una certa superficialità non sempre del tutto ingenua, nonostante gli ampi numeri in gioco – in termini di utenti e di quattrini – portino a pensare che è ora di accelerare la regolamentazione della sharing economy.
Molte delle questioni si erano già poste dai “decani” delle piattaforme, tipo E-bay o Tripadvisor, evidenziando la consueta inadeguatezza dell’Italia (ma altrove non va molto meglio). Di certo il sistema è da affrontare al più presto per tenere il passo con il rapido sviluppo di questo nuovo sistema economico, sia in tema di regolamentazione, sia in tema di controlli, un altro settore in cui il paese esibisce in modo sconfortante tutta la sua debolezza.
Eppure si parla di un’economia in forte crescita, foriera di opportunità di lavoro e di socialità e già stanno arrivando gli Uber dei notai, degli avvocati e addirittura dei medici e della banca…