Da Luisa e Franchino, parrucchieri in largo IV marzo (nonchè via Bonafous), il tempo che si passa per rimettere a posto i capelli trova un senso e un suo perchè nelle leggi dell’universo. Oltre ad uscire con la testa in ordine, ci si riesce a rilassare con buona musica, ottime letture, un piacevole aperitivo e, dulcis in fundo, scoprendo tutto intorno pezzi unici di grafica e sartoria. Ed andare dal parrucchiere diviene anche un piacere per la mente!
Di solito il tempo passato dal parrucchiere lo equiparo mestamente un po’ a quello nella sala del medico: in primis attesa, poi spostamenti da una sedia all’altra, rapidi sguardi alle triste riviste presenti tra un lavaggio e una piega, accumulo di momenti interminabili per il turno del taglio, lotte senza quartiere per riuscire a farsi fare qualcosa in testa che poi si sarà in grado di domare, timore inconscio e paranoia di uscire dopo ore con una forte somiglianza con David Bowie in Aladdin Sane (giuro, purtroppo mi è successo! Ero uguale a Ziggy Stardust, evviva!) Insomma, sorry ma devo fare un terribile outing – affatto glamour – : andare dal parrucchiere è per me tale quale una purga staliniana.
Ora tutto questo è cambiato da quando ho iniziato ad andare da Luisa e Franchino. La prima cosa che ha colpito il mio sguardo è stata che, passando per la strada le vetrine pare racchiudano al loro interno una preziosa galleria d’arte grafica o un atelier specializzato in pezzi unici e rilavorati, dai grandi specchi da tavolo splendenti di luci, alle borse di design fatte a mano in colori inusitatamente vivaci, fino alle gonne sghembe come sculture, le matite stranite e le enormi gomme ‘for big mistakes’ (Laboratorio Zanzara!), le sedie da barbiere, quelle da cinema, l’angolo delle piante grasse,i giornali di creatività varia sparsi ovunque, Topolini degli anni settanta e poi… libri, libri, libri (di architettura, arte, grafica, design, curiosità, storia e cultura varia.)
La prima volta che ho lasciato i miei capelli in mano a Luisa sono stata distratta e rapita dal numero di gennaio/aprile di Uppercase Magazine e lei avrebbe potuto trasformarmi persino in Elton John. Ma non l’ha fatto. Sono uscita di lì che ero non solo in ordine – senza somigliare ad alcun cantante attivo negli anni Settanta – ma in più sfoggiavo una chioma morbida, fluente e fluttuante, ricca di riflessidorati come un campo di grano in estate, che mi faceva sentire come le signorine della pubblicità Pantene quando scuotono la loro criniera davanti alla telecamera.
Andare da Luisa è un’esperienza che coinvolge tutti i sensi, un piccolo teatro è quasi certamente in attesa della vostra attenzione: capita di incrociare scenette curiosamente oniriche: una bambina norvegese sul cavalluccio a dondolo si fa tagliare i capelli biondissimi e poi raccoglie le ciocche cadute per porgerle da mangiare al cavallo come fossero biada. ‘Così’ mi spiega con aria seriosa, ‘non li buttiamo via, i miei capelli.‘ E poi mi sorride con grandi occhi color cielo.
Bisogno della toilette? Niente di più avventuroso. Può darsi che ad un certo punto vi debbano chiamare, perchè, una volta discese le scale, proprio come in un sogno, si arriva in un corridoio con porte disegnate, libri sparsi, teste in cartapesta, luci da boudoir. Basta seguire le orme di piedini azzurri in terra e, passando attraverso una luce blu al neon si finisce in una sorta di vestibolo incrostato di quadri vagamente art noveau (ma un’art noveau prodotta dopo una serata a base di oppiacei). Niente è come sembra. Si sbuca in un salotto minimo illuminato da un’abat-jour in mezzo a due poltroncine: tavolino e libri, ancora libri. Per terra i tappeti rammentano l’interno di una tenda beduina. Verrebbe voglia di fermarsi e vivere questa strana atmosfera sfogliando vecchi manuali di design e grafica senza tempo.
Poi si torna in superficie, come risalire da sottocoperta alla prua della nave. Ci si risiede al lavandino e continuano i massaggi sulla testa, i profumi delle lozioni inondano l’aria, la voce roca e profonda di Armstrong canta di un wonderful world. I phon non sono rumorosi nè invadenti e se è giovedì arriva anche Sara portando il cabaret dell’aperitivo…D’estate birra, d’inverno vino e formaggi. E intanto vari personaggi entrano ed escono ed è come una piccola comunità artistica d’altri tempi.
Finita l’esperienza i capelli sono a posto e la testa è in preda a mille stimoli. Cosa chiedere di più per lo spirito ed il corpo?