Scendere nel laboratorio di Marco Stefanelli è compiere un viaggio nei sensi, nella luce e nel buio, nelle emozioni e negli intenti. Un percorso che si potrebbe dire metaforico, se si tiene conto che io sono entrata un pomeriggio in cui era già sceso un buio blu e The Boxer Design – questo il nome della fucina creativa – era vuoto.
Una casa antica su Via Maria Vittoria, scendere le scale buie, aprire porte pesanti. L’emozione era quella di aver accesso al laboratorio di Efesto, ovvero penetrare in un luogo dove nasce qualcosa, il miracolo della vita si ripete ad libitum, si costruisce la luce e si lavora la materia. Che strana sensazione, quella del luogo sacro. Si rimane in attesa, ci si guarda intorno per capire. L’arte è una cosa strana. Si può anche non riuscirne a comprendere certe esternazioni e in quel caso si crea il disagio, quindi quando si incontrano cose nuove è sempre curioso scoprire l’effetto che ci faranno. Sono come degli appuntamenti al buio, per me.
Niente disagio, invece. L’accoglienza avviene attraverso l’olfatto: il profumo dei cedri avvolge la stanza, chiudi gli occhi e vedi il mare, il Medio Oriente; immagini boschi, accarezzi cortecce, senti frusciare le foglie. Ogni senso viene stimolato. Riaprire gli occhi e trovarsi di fronte alle Brecce accese, con la loro luce soffusa eppure decisa – che irraggia attraverso il taglio che le trapassa come una ferita – porta alla comprensione del resto. Posso toccare le lampade, conoscerne le incrinature e le ruvidità da cui emana la vita. E’ proprio questo, Marco gira il ceppo di legno e mostra al fondo del taglio una sorta di ‘cicatrice’ creata con dei punzoni. Sono tutti materiali di recupero, anzi materiali di recupero del recupero, che arrivano da scarti di lavorazione del legno. Ognuno di essi mantiene il suo difetto, la sua difformità, la sua cicatrice. Ma ognuno di questi scarti apparenti è stato preso e riconosciuto. Marco ha saputo ritrovare nella forma rifiutata il suo potenziale e tirarne fuori il karma, che poteva rimanere segreto, ignoto. Riciclo, design non solo emozionale, ma anche e soprattutto sostenibile. Persino nella lavorazione delle resine che costituiscono la parte ‘illuminante’ (creata con una particolare lavorazione di estrazione e ricostruzione), c’è la ricerca della sostenibilità: nello scegliere gli stampi, evitare gli sprechi, recuperare tutto e ridare nuova vita. Un demiurgo attorniato da strani strumenti, nel teatro del suo laboratorio dove si restituisce la vita all’apparente inutile, all’assenza che diventa presenza: mi viene in mente, non so perchè, La vida es sueño di Calderòn de la Barca:
Che è mai la vita? Una frenesia. Che è mai la vita? Un’illusione, un’ombra, una finzione… E il più grande dei beni è poi ben poca cosa, perché tutta la vita è sogno, e gli stessi sogni son sogni!
Eppure non c’è pessimismo in queste creazioni, anzi. Nel materiale, nel recupero, nelle cicatrici visibili delle punzonature di metallo c’è gioia, volontà creatrice, forse ottimismo: è solo quindi l’onirico il senso della frase che vedo proiettata sulle pareti bianche di quello che – a breve! – diventerà anche uno showroom. Perchè intanto le ombre delle sedie (ovviamente sedie vecchie, recuperate, da rigattiere) creano su quei muri scenografie di teatri d’ombre misteriosi sulle pareti. Se tutto è sogno, allora la vita non deve essere frenesia. Serve la pazienza dell’artigiano, in tutti i significati che possiede la parola medievale artifex: artefice, artigiano, artista… la costanza del rendere vivi i sogni, anche attraverso un oggetto di design. C’è in particolare una di queste opere, tra le più piccole, le prime, creata da un legno difficoltoso, poco lavorabile, che mi ha colpito, con la sua corteccia rugosa. Una luce legata davvero al sonno, alla notte. Mi sarebbe piaciuto averla accanto per leggere nel letto prima di dormire. Perchè è protettiva eppure forte, sincera ed accogliente, come le veilleuse dei primi del Novecento, quelle che si mettevano sul comodino per traghettare dolcemente i bambini nel mondo dei sogni. Ecco, mi metterei al calduccio davanti ad un camino, con una tisana, un vino, un libro, o qualcuno che ha qualcosa da raccontare: accenderei questa Macchina dei Sogni e mi lascerei andare al teatro del karma nella penombra o anche nella luce decisa (c’è persino il dimmer, in alcune!)
In chiusura, vorrei ricordare che non è facile arrivare a tutto ciò: ogni pezzo – che arriva da scarti di segheria, legna destinata ad essere arsa, o anche tronchi portati dai fiumi – comporta una lunga e precisa lavorazione: il progetto, la preparazione del calco, fino alla ri-creazione di un ceppo a cui vengono date caratteristiche e piccoli dettagli, riconsegnandogli una nuova identità. La pazienza di questo processo mi colpisce: non ci sono scorciatoie. E c’è anche entusiasmo e costanza nello spiegare tecniche che, per i non addetti ai lavori, possono essere ostiche da comprendere. Che è mai la vita? Una frenesia…Ma, invece, stavolta no.
Conosciuto ed apprezzato designer, soprattutto grazie alla collezione delle suddette Brecce (create insieme a Trecinquezeroluce) presenti sia a Milano al Fuori Salone – nella sede di Cascina Cuccagna, chi mi segue si ricorda la giornata milanese su Lolakunst, – sia a Londra al 100%Design Earls Court e ora a Sauze d’Oulx – Marco Stefanelli continua ad inventarsi ‘cose nuove’ per ricreare nella vita i sogni e nei sogni la vita, attraverso quello che era destinato alla ‘morte civile’ ed ora invece ha piena e suggestiva identità.
Per poter vedere,annusare, abbracciare o possedere le Brecce andate qui e qui e troverete tutti coloro che collaborano attivamente a rendere concreti questi sogni.
Erika A. Savio