Resta alto il morale e tenace la speranza dei rifugiati che occupano le case dell’ex Villaggio Olimpico di Torino dopo la visita del vescovo, Monsignor Cesare Nosiglia. Un occupante che vive da diverso tempo nelle case di via Giordano Bruno, oggi abitate da oltre 400 profughi, mi aspetta di mattina presto davanti alle palazzine per raccontarmi del dopo-Nosiglia.
A venirmi incontro con un largo sorriso aperto è un ragazzo che appena mi vede si stacca dal gruppo che sta parlando e scherzando davanti ad una palazzina blu, dove l’intonaco ha iniziato a scrostarsi ma resta il colore vivace che aveva accolto atleti e non solo durante le Olimpiadi Invernali di Torino del 2006. Oumar, 31 anni, originario del Sudan, paese in cui va avanti da troppi anni una sanguinosa guerra civile, è stato lieto di incontrarmi stamattina, primo giorno di Ramadan, perché “non si deve perdere interesse per la nostra situazione”, una situazione che “purtroppo non è diversa da quella di molti altri rifugiati ed immigrati non solo in Italia”, sottolinea. “Ma noi ci sentiamo a casa qui” prosegue subito, “manca solo la residenza”. “Il vescovo Nosiglia se ne sta occupando”, ci tiene a spiegare in un italiano fluente, parlando a nome delle tante persone che assieme a lui abitano queste palazzine.
Le speranze ed il morale rimangono dunque alti dopo che il vescovo di Torino ha annunciato durante la sua visita dello scorso sabato di essere intenzionato ad incontrare “i rappresentanti delle istituzioni” per poter poi “tornare qui a portare le risposte che mi saranno date”, soprattutto in materia di permesso di soggiorno umanitario, la cui scadenza è prevista per la fine dell’anno.
Ma non è solo la residenza a mancare loro. Non hanno acqua calda con cui lavarsi, né gas per poter cucinare, mi dice Oumar quando gli domando quale sia la condizione pratica in cui vivono. Ma non vi è traccia di rassegnazione nelle parole di Oumar. Egli tiene anzi a sottolineare in egual modo quello di cui già possono godere. “Abbiamo ottenuto l’energia elettrica”, mi dice, e soprattutto si sofferma a spiegarmi come nelle palazzine regni la quiete e si viva in armonia. “Giochiamo spesso a pallone la sera, tutti insieme”, continua con il suo largo sorriso e senza che alcun segno di incertezza traspaia dal suo volto.
Saluta poi con un cenno della mano un altro ragazzo che viene ad aggiungersi ai molti che, nonostante sia ancora mattina presto, e senza che io quasi me ne accorga, oramai mi circondano. Spinti forse dalla curiosità, e poi da un senso di partecipazione quando ascoltando le parole di Oumar capiscono che stiamo parlando della loro situazione.
“Questo ragazzo, del Sudan come me, non vive qui con noi, ma viene a trovarci ogni volta che può” mi spiega Oumar, “è un amico, questa è anche casa sua”. Gabriel mi sorride a sua volta e conferma. “Abito in strada Settimo io”, mi dice, “ho preso parte ad un progetto dell’Unione Europea che mi ha permesso di studiare e di trovare una casa. Ma anche qui mi sento sempre a casa”. Ha sotto il braccio una pila di fogli. Sono curricula. Gabriel si accorge che li sto guardando ed esclama: “studiare, lo sappiamo tutti, non basta per trovare un lavoro. Dobbiamo darci da fare”. Non potrei sentirlo più vicino ed eguale.
Si è fatta dunque l’ora di girare per Torino alla ricerca di un lavoro. Uno qualsiasi, basta che permetta di vivere dignitosamente. Oumar e Gabriel si scusano e mi salutano, i curricula stretti al petto. Ma non prima di avermi detto grazie. “Torna a trovarci, e non smettere di interessarti della nostra situazione”, mi dicono, spiegandomi a parole loro come sia importante tenere alta, grazie ad una corretta informazione, l’attenzione dell’opinione pubblica della città. Non mancherò, dico loro, di passere a trovarli presto per informarmi sui futuri sviluppi, e salutandoli mi avvio verso l’uscita.
Proprio mentre sto per uscire da un passaggio in una lamiera azzurra che delimita la palazzina e affaccia sulla strada, il mio sguardo è attirato da un ragazzo che sembra lavorare al giardino mentre ascolta musica reggae. Mi avvicino, lo saluto timidamente per paura di disturbarlo, ma la mia presenza lì lo incuriosisce e con la mano mi fa subito cenno di avvicinarmi. “Vieni – mi dice – vieni a vedere pure, sto lavorando”. Penso ai fiori io, penso ad un giardino. Ma mi rendo immediatamente conto che si tratta di un orto. Mohuamadou, fiero, mi mostra “le patate che sto coltivando”. “Lo troverò un lavoro, mi sto impegnando”, mi spiega, ma “nel frattempo faccio una cosa utile, coltivo questa terra per tutti”. Decisamente un bel esempio di orto in città.