Uno dei più begl'insegnamenti che ci ha lasciato Milton Erickson è anche fra i più semplici: quando tu dici «Non pensare!» finisci proprio per portare l'altro a pensare a quello che non avrebbe dovuto. «Libera la tua mente. Svuotala» è tutt'un'altra cosa. È un'indicazione espressa in positivo e pertanto semplice, lineare, chiara, senza impliciti.
Una frase che inizia con “non” invece è contorta per sua stessa natura. «Non andare ad Aramengo!», ad esempio costringe la tua mente – per quanto tu non te ne accorga – a farti un veloce giro fino ad Aramengo (se non altro perché non sai dov'è o per ricordarti se ci sei già stato) per poi tornare indietro a cancellare il tragitto – il che, tra l'altro è impossibile perché quello esiste e per di più l'hai ricreato mentalmente.
Troppo spesso si parla di “pensare positivo” come sinonimo di “logica benpensante”, mentre il vero significato di questo precetto sta proprio in questa natura sintattica e psicolinguistica.
Guardandoci in giro, di questi tempi viviamo un periodo pieno di “non” invece che di affermazioni positive, di proposte pratiche, di lavoro costruttivo. Riconosco che non è possibile non dissentire (e questa mia doppia negazione la dice lunga), ma è tutta questione di equilibri e di consapevolezza.
Bisogna essere consapevoli che quando si chiede ad una persona di «Non aver paura!» lo si porta implicitamente a provarla. E questo è due volte stupido: da un lato perché se lei in quel momento ha paura, oltre ad acuirla, non ci si rende conto che se bastasse proibirselo lo avrebbe fatto sicuramente da sola, senza aspettare il tuo ordine inutile; dall'altro, se lei non la sta provando, si instillerà il dubbio che possa esserci ragione di temere qualcosa e così la si risveglia.
Lo stesso vale per il «Non peccare!» di tradizione religiosa: nulla incita maggiormente al peccato che il suo divieto. La strada del “non”, potrebbe dire un antroposofo, è “luciferica” quanto quella del “seduttivo” arrendevolmente promiscuo è “mefistofelica” (o “arimanica”): due principi diabolici che vivono proprio della loro antitesi, si reggono sulla contrapposizione come uno specchio che non esiste senza immagine e viceversa.
L'unica via è quella del centro, dell'equilibrio dinamico, della passione morale, della spinta affermativa e generativa, della semplicità compassionevole, dell'era del Buddha Maitreya…
Tutto questo può essere espresso con una parola universalmente facile e che solo per questo ha spesso perso di significato e di comprensione, ma oggi meno che mai di valore e di importanza: la parola è “amore”.
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Suggerimenti per un festeggiamento lontano da Sanremo. Riproposizione di un post esattamente di un anno fa. Per la lettura è consigliata la presenza di un adulto mentalmente flessibile.
Un San Valentino sensuale non è da tutti, ma meglio niente che da coatti
Come ogni anno, preparato da innumerevoli inviti agli acquisti, anche questo febbraio è arrivato il periodo della festa degli innamorati coincidente con il giorno del San Valentino, uno dei tanti sfortunati martiri della chiesa cattolica a cui sono attribuiti diversi miracoli che vedono come protagonisti giovani innamorati, fra cui lo stesso santo.
Tuttavia, come per molte altre festività, la chiesa è andata a sostituire festeggiamenti pagani con figure rituali. Si sa, ad esempio, che molte delle feste religiose comunemente celebrate coincidono in maniera più o meno precisa con equinozi e solstizi (inizi di stagioni astronomiche) che hanno da sempre avuto significati simbolici per i cicli naturali corrispondenti.
Non fa eccezione la festività di S. Valentino che la chiesa, per non perdere il seguito del popolo comune senza per questo volere riconoscere culti giudicati peccaminosi, introdusse per sostituire la diffusa festività pagana delle Lupercalia.
Le Origini Pagane
Non tutti ormai sanno che febbraio è il mese in cui si comincia a seminare molte delle piante perché possano iniziare una gestazione che si manifesterà solo con i primi caldi primaverili. Questo periodo dell'anno viene visto dai culti naturalistici anche come la metafora della fertilità e del concepimento. Non è un caso che all'origine dei Lupercali vi fosse un preoccupante periodo di sterilità delle femmine che ricevettero come risposta dalle divinità l'indicazione di venire penetrate ripetutamente dal fauno a cui queste festività si riconducono. Queste semi-divinità dall'aspetto poco rassicurante di caprone avevano la caratteristica di un'erezione inestinguibile cui si rifà anche la medicina attuale che chiama questo sintomo “priapismo” in onore del fauno. Le donne corrono nei boschi nude inseguite dagli uomini-fauni e più o meno così si continuò a fare anche se la versione attenuata vede la loro fustigazione con pelli di capro che avrebbe dovuto indurre la fertilità.
Non è un caso che ci si trovi nello stesso periodo dell'anno famoso come i Carnascialia, giunto a noi come Carnevale, ovvero la liberazione della carne. A Venezia, dove il Carnevale è da sempre famoso e che, ben prima di Parigi, è stata patria del libertinismo di casanoviana memoria, i banditori che annunciavano l'arrivo della Quaresima nel medioevo assieme alle altre notizie si raccomandavano di non abbandonare i feti nei canali per il rischio di pestilenze (nel profondo medioevo le cose andavano così e dove non c'erano i canali c'erano le letamaie).
Ma il S. Valentino che meglio conosciamo è un festeggiamento che è stato coltivato soprattutto nelle culture anglosassoni ed lì il romanticismo ne fece perdere i connotati pagani per portarlo a noi passando per i fidanzatini di Peynet fino a farlo diventare l'orgia consumistica benpensante a tutti nota.
Una festa per tutti i gusti
I modi di festeggiare S. Valentino sono tutto sommato di due o tre tipi.
Il Modo Indifferente. Grazie al cielo una gran parte delle persone, se non ci fosse la televisione e gli SMS pubblicitari o lo spam, non si sarebbe neppure accorta che è passato il 14 bebbraio e se qualcuno al lavoro chiede loro: “che cos'hai regalato per S. Valentino al tuo fidanzato”, rispondono con un “Eh? Coosa? San che?…”. D'altro canto, si tratta della festa dei fidanzati, degli innamorati, degli ormoni in agitazione e, per quanto si cerchi di convincerci che siamo tutti eterni adolescenti, non tutti cadono nella trappola e molti, guardando il comportamento dei figli adolescenti, benedicono il fatto di essere usciti sani e salvi da quel periodo di fragilità irrazionale. Per questo non solo è giustificabile, ma è addirittura salutare che non si sentano coinvolti da questa giggionata.
Modo Ritualista e Distratto. Si tratta in fondo di due faccie della stessa medaglia. Per quanti siano gli indifferenti, per molti le date rituali segnano lo scandire del tempo e aiutano a dare un senso alla vita. Come Natale o Pasqua che hanno dalla loro il fatto che non si lavori, anche quella della mamma, del papà, dei nonni (a dispetto del loro numero conseguente alle famiglie allargate frutto delle tante separazioni), anche la festa degli innamorati è un impegno che ci fa sentire parte di una realtà condivisa. Come ogni impegno, i più organizzati se lo segnano nel calendario o nell'agenda dello smarphone, evitano di andare a casa troppo tardi per trovare ancora un fioraio o un cravattaio aperto così da non arrivare a casa a mani vuote. Cosa che non capita invece alla loro versione distratta, che “accidenti a me ho combinato un guaio, me lo sono dimenticato ma recupero domani”. In fondo, memoria a parte, si tratta di due facce della stessa medaglia, quella dell'uomo e della donna gregari che cercano ogni giorno di non essere troppo diversi dal mondo che hanno attorno. In alcuni casi, anche i loro figli che non devono essere da meno, fanno il regalo di S. Valentino ai genitori che magari ricambiano la cortesia con un pensierino: “prendete questi soldi e andate a divertirvi che mamma e papà stasera sono fuori”.
Modo Narcisista. Dice Woody Allen che la masturbazione in fondo è fare l'amore con la persona che ami di più, e non si può non riconoscergli una discreta ragione. Le cose cambiano quando per fare l'amore con te stesso hai bisogno di usare un altro. Per fortuna spesso queste cose capitano fra persone con gli stessi gusti. Per costoro la festa degli innamorati arriva a proposito e in genere è un'occasione in cui l'amore fa rima con potere. Lei si aspetta dei regali costosi e si darà o meno in funzione dell'afrodisiaco ricevuto della dimensione di un gioiello o di un bene di lusso in genere, sperando che il ricevuto sia superiore alle aspettative di per sé già sufficientemente alte. Lui consumerà più per dimostrare il potere di cui gode suggellato dall'esborso, ma non è improbabile che non si tratti dell'unico regalo del giorno con quanto ne consegue. In definitiva entrambi sperano di essere compiaciuti da se stessi più che dall'altro, ed essendo l'immagine che hanno di sé superiore a quella che gli arriva dall'altro, quando baceranno o si uniranno in realtà lo faranno con il proprio avatar.
Suggerimenti per un S. Valentino alternativo
Per chi si ama veramente, per i fidanzatini di Peynet nostri contemporanei di tutte le stagioni, come canta Battiato, tuttavia questi festeggiamenti possono essere un'occasione in più per lasciarsi andare alle effusioni e qualche regalino, dal fiore al cioccolatino, può non starci male. Tuttavia, il regalo migliore non è la sorpresa che si fa all'altro, ma la complicità nel progettare la festa insieme. Cari fidanzatini appassionati, voglio quindi suggerirvi due proposte semplici semplici per uscire dal S. Valentino dei coatti. Potete ispirarvici oppure prenderle solo in considerazione per inventare qualcosa che piaccia di più a voi, sempre all'insegna della complicità.
Intimità sensuale. Prendetevi tutta la giornata per voi stessi. Se lavorate, mettetevi in ferie, altrimenti datevi per contumaci. Incominciate a cercare insieme della biancheria intima chiedendo all'altro come piace senza lesinare suggerimenti arditi. Nei preparativi andate a ricercare afrodisiaci di ogni genere, da quelli olfattivi, come essenze o incensi, a quelli alimentari, le ostriche, le uova, il prezzemolo, il tartufo, l'aglio (che però devono assaggiare entrambi in misura contenuta), i fichi d'India, la vainiglia… Che ognuno regali a sè stesso un tattamento estetico e rilassante (perché il segreto dell'eccitazione è il rilassamento intimo) e poi compri un olio caldo e sensuale per potere poi dedicare il dopo cena a dei massaggi reciproci molto prolungati. Fate durare a lungo le coccole, perché almeno fino a mezzanotte è sempre festa e vivetela come un modo per rinforzare la vostra intesa intima (invece di disperdervi in feste o discoteche come tutti gli altri giorni) per finire a dormire insieme nella posizione a cucchiaio.
La festa di non-S. Valentino. Come nel paese delle meraviglie di Alice festeggiavano la festa di non-compleanno, il suggerimento che amo di più è quello di festeggiare S. Valentino tutti gli altri 364 giorni dell'anno. Allora come passare la festa degli innamorati? Anche qui con la complicità. Accordandosi entrambi di trascorrere la giornata, il più a lungo possibile insieme, ma negandosi ogni tipo di effusione, dal bacio al contatto, dalla parola innamorata, al regalo, persino agli appellativi come “cara”, “tesoro” e, ovviamente, “amore”. Potete però manifestare all'altro la frustrazione di questa rinuncia, e l'altro giocherà a rinforzare la volonta dell'astinenza amorosa. Fare un po' come il giorno di digiuno che si usava nelle religioni, come il ramadan o come il venerdì senza carne. Potete giocare a fare all'altro le confidenze sui pensieri più reconditi su di lui/lei ma solo in terza persona, come se li raccontaste ad un'amica o a un amico e l'altro dovrà rigorosamente evitare il tranello di entrare nella parte, a rischio di pagare un pegno salato. Trascorrete in questo modo la giornata di non-festa sapendo che allo scoccare della mezzanotte si aprirà il resto dell'anno tutto festivo. Non è un peccato regalare all'altro l'assunzione della pillola blu, non perché non ne sia capace, ma proprio per esagerare, oppure bevete moderatamente degli alcolici il giusto indispensabile per attenuare le barriere inibitorie, guardatevi negli occhi in attesa che lo scoccare della mezzanotte (che avrete impostato nella suoneria del cellulare) vi risvegli, poi, lì dove siete, badando di non incorrere in un arresto per turbamenti al pubblico pudore, denudatevi e rincorretevi e assalitevi, come licantropi o come vampiri, o più semplicemente come primitivi pagani inebriati dalla transe e possedetevi facendo tutte quelle cose amorose che non avreste mai pensato di concedervi. Scappate e poi fatevi riassalire dal desiderio, trascorrendo una notte brava che – attenzione – funzionerà però solo in proporzione a quanto avrete rinunciato durante il giorno e, non ognuno per conto suo, ma indissolubilmente uniti nell'astinenza vogliosa.
Ci sono due parole che, sono pronto a scommettere, molti di noi conoscevano poco o punto.
La prima è la parola Anomia. A prescindere dalle sue origini etimologiche connesse al disprezzo per le norme comuni – che pure è quanto mai attuale, sia come conseguenza delle ingiustizie che come estremo egoismo nel mantenere illimitati privilegi – l’uso contemporaneo del termine si deve a quello che in molti considerano il padre della sociologia della conoscenza e di parte dell’antropologia culturale, ovvero il francese Émile Durkheim (e dopo di lui sarà ripreso da Talcott Parsons e Robert K. Merton). Nei lavori di fine ‘800 sulla divisione del lavoro sociale e soprattutto nel saggio Il Suicidio, la qualifica come la dissonanza profonda – più esistenziale che cognitiva in senso stretto – fra la descrizione condivisa della realtà e la sua percezione individuale e soggettiva.
I più psicologici fra i miei lettori non avranno difficoltà ad individuare come questa situazione pregiudichi gravemente il senso di identità e come si tratti di un meccanismo che ha gli stessi tratti esistenziali di gran parte delle psicosi, dove lo scarto fra identità e realtà diventa un baratro incolmabile.
Secondo Durkheim l’anomia si presenta come accesso acuto a fronte di un evento che mette in crisi l’ordine della realtà e dei suoi valori – ingiustizia divina di un lutto o quella sociale della perdita del posto di lavoro. Ben più profondo è il caso in cui, a seguito di continui cambiamenti sociali che non hanno trovato il tempo e le condizioni per venire assimilati in un quadro di valori condiviso, essa si trasforma in una condizione cronica di una società che ha perso il legame semantico, ovvero il significato comune delle cose e dei valori. In uno tale scenario Merton coglie “uno scompenso tra scopi esistenziali messi a disposizione dalla cultura sociale e mezzi legittimi per raggiungerli*“.
Il neologismo della solitudine
Veniamo dunque alla seconda parola: Hikikomori. Il termine è giapponese, si scrive (????? o ???? Hikikomori, e significa letteralmente “stare in disparte, isolarsi”.
Sicuramente più di una persona avrà sentito citare questo lemma soprattutto per essere fra i neologismi inclusi nel nuovo Zingarelli. Descrive una situazione consolidata in Giappone, ma estremamente diffusa seppure in varie forme nei paesi occidentali, che vede la gioventù barricata nelle proprie stanze a lasciarsi andare, passando da un videogioco, ai fumetti, allo streaming su Internet. Una sorta di “barbonaggio” domestico, di pauperismo familiare o di “homeless in casa”, in cui a dominare è tuttavia meno il rifiuto che l’abbandono, l’atarassia: una mancanza di desiderio e un lasciarsi andare alla deriva quasi autistico.
Bisogna ricordare almeno due aspetti della cultura sociale del Giappone.
Intanto il fatto che questo paese ha una tradizione di coesione sociale e di condivisione di norme dei valori superiori per molti versi anche a quelle dei paesi più integralisti, fatto che ha consentito ad un tutto sommato piccolo arcipelago di sviluppare una potenza tale da mettere alla prova, non solo grandi nazioni come la Cina, ma anche coalizioni internazionali come durante la seconda guerra mondiale; al termine del conflitto l’occidentalizzazione del paese ha condotto intellettuali e figure significative del paese a domandarsi se continuasse ad essere quello il paese in cui erano nati e con cui identificavano la propria identità sociale. Il caso più clamoroso fu forse il seppuku del premio nobel Yukio Mishima.
In secondo luogo, forse proprio in conseguenza di questa perdita di coesione, questo paese è diventato la patria del gioco d’azzardo con macchine elettroniche e oggi videogiochi con i quali intere popolazioni all’uscita dai luoghi di lavoro, in mancanza di luoghi di ritrovo rituale (un bel dipinto di questo scarto lo si trova nel bellissimo – per molti troppo profondo – film DeparturesPt.1 e Pt.2) si stordiscono diventando loro, le persone, le palline di questo gigantesco flipper, sbattute di qua e di là da una congestione di automatismi. A questo punto possiamo concepire lo Hikikomori come un rifiuto di questa connivenza fra passività ed uso del denaro. Non c’è bisogno di spendere per lasciarsi andare ad un videogioco taroccato e non c’è bisogno di credere nella fortuna come hanno fatto i genitori o in un’affermazione sociale inattendibile: basta lasciarsi andare senza combattere, né credere, né desiderare. La realizzazione dell’antico progetto di Schopenhauer di negazione della volontà.
Con troppa facilità psichiatri e psicoterapeuti si sono buttati a capofitto nella nuova mucca da mungere delle cosiddette “Internet Addiction” e ora che certi dubbi di una quindicina d’anni fa, anche se non del tutto scomparsi, sono molto più soddisfatti si aggiunge confusione alla confusione facendo di tutta l’erba un fascio, considerando essere “tre milioni gli italiani colpiti da un disturbo psicologico che li costringe a isolarsi dal mondo nello stile degli Hikikomori giapponesi. L’incidenza del disturbo colpirebbe dal 3 all’11% della popolazione, con una prevalenza per i maschi dai 15 ai 40 anni, resi dipendenti dalla frequentazione compulsiva dei casinò online e i siti pornografici” (46° Congresso Nazionale della Società Italiana di Psichiatria cit. da G. Nicoletti).
Qui centra così poco la pornografia e il gioco d’azzardo! La situazione potrebbe essere la stessa anche senza Internet – ma difficilmente senza elettronica. La cultura elettronica parte da molto prima dell’elettricità, dalla semplice trasmissione delle comunicazioni (e quindi delle informazioni, della conoscenza e dell’apprendimento) in condizioni di assenza di contatto, come nel caso più ovvio del libro e del giornale. La differenza da 30-40 anni fa è che allora il giornale lo leggevi il più delle volte per discuterne nei luoghi di socializzazione, primo fra tutti l’ambiente di lavoro. Oggi che “la divisione del lavoro sociale” si è definitivamente frammentata e si è perso il valore primario di condivisione e di scambio su cui s’imperniava il tempo del lavoro, la comunicazione delle conoscenze e delle informazioni è ricorsiva: finalizzata a generare altro prodotto residuale della stessa materia.
Il principio normalizzante dell’attività di polizia sanitaria (Foucault) dello psichiatra difende con le unghie e con i denti la natura soggettiva della patologia assunta come tale degli Hikikomori per non svelare il fatto che gli spazi di socialità sono consentiti oggi solo a due categorie di persone: gli esclusi dal sistema consumistico e i debordanti parassiti capitalisti che si guardano bene dallo sporcarsi le mani con la tecnologia.
I ragazzi dell’Hikikomori sono figli della classe media, doppiamente schiava, da un lato del dovere di mantenere efficiente il sistema dei consumi che dà loro da vivere, dall’altro di soggiacere al ciclo continuo dell’automazione fisica e intellettuale. Non basta, deve farsi convinto che siano questi i valori importanti della vita etichettati sotto la grande truffa del “progresso” e deve far in modo di trasmettere questi convincimenti ai figli. Proprio in Giappone dove la ribellione ai genitori è quanto mai inibita, l’unica risposta possibile delle nuove generazioni è una sorta di “seppuku esistenziale e intellettuale”. In altri termini, ad essere malati non sono i giovani e neppure le tecnologie, ma la circonvenzione passiva dei primi e la circolarità automatizzata delle seconde (dove con il termine intendo la generazione di output senza apertura in direzione delle esistenze, ma sotto forma di rifornimento di input del sistema automatico che comprende le persone nel suo stesso automatismo: uno stabulario tecnologico).
Conclusioni?
Fare due più due non è difficile, a questo punto e ritengo pleonastico indulgere sulle affinità fra le situazioni descritte dalle nostre parole: Anomia e Hikikomori.
Più utile sarebbe piuttosto trovare una via per questa fuga da Alcatraz dei nostri giovani, prigionieri di un triste destino della società dei consumisti e degli intellettualismi, schiavi di un serbatoio della inattività e della de-socializzazione chiamato scolarizzazione della società (Illich).
A questo punto subentra il deviato psicoterapeuta che è in me e non posso non farmi carico della sofferenza di giovani e famiglie. Quindi devo dire che una soluzione c’è e sicuramente più di una, ma chi dobbiamo considerare da curare, stante che i sistemi sociali non si possono curare, essendo delle derivate statistiche di soggettività e gruppi, quelli sono i genitori.
Il primo passaggio, come sempre, è l’ammissione della condizione patologica e patogena – conviene ripeterlo, prima che ad ammettere sia il figlio, devono ammettere di essere “ammalati” i genitori: che il modello di vita a cui stanno aderendo non è l’unico possibile e di certo non il migliore possibile. La domanda che uno psicoterapeuta dovrebbe fare è: fino a che punto potreste spingervi per rifiutare il ricorso all’energia elettrica? Portare il frigorifero e gli oggetti indispensabili in garage o in cantina e trasferire in casa solo l’indispensabile? Stare così per un periodo di almeno un mese, mangiando a lume di candela? Di certo dopo qualche giorno diventerà impellente il desiderio di uscire, anche solo per cenare fuori o andare al cinema: e questo sarà già qualcosa. Ma non potrà trascorrere un mese senza che delle cose cambino; senza che la fede nel sistema del condizionamento forzato ai media e alle routine dell’allevamento automatizzato dei polli umani prenda a vacillare.
Il problema, credetemi, non è la mancanza di cura dei figli o delle famiglie: il vero problema è che nessuno dei nuclei familiari così ipocritamente attaccati alla salute dei figli arriverà mai a mettere operativamente in discussione i valori e i modelli del sistema in cui si vive. Che non ci importi nulla di credere a Berlusconi, a Bersani, alla Repubblica o al Giornale, che si possa stare senza cellulare, che il valore importante non sia l’automobile, ma riprendere a coltivare la terra, che sia meglio ritornare ai filò dei nostri bisnonni piuttosto che alle soirée operistiche o teatrali o nei locali cool della movida!
Come vedete i valori su cui si basa il nostro modello di vita sono più marci e puzzolenti delle lenzuola di un giovane succube dell’Hikikomori. I malati siamo noi!
Una legge recente fa posto, fra l’altro, a nuove forme di professionisti dell’aiuto. A patto che non si occupino di terapia!
Esiste un vero e proprio universo parallelo costituito dai trattamenti cosiddetti “alternativi” alle cure tradizionali note con l'etichetta di “terapeutiche”: si va dai comuni consigli dell'erborista, ai massaggiatori vari, ai counselor, per non parlare di carismatici, paragnosti, cartomanti che esercitano di fatto attività simili. Una legge dello scorso dicembre di cui riferiamo dopo l'interruzione, nel disciplinarle di fatto le legittima e le istituisce, rispondendo a dei requisiti europei, ma anche scontentando tanti e facendo felici pochi: non solo gli stessi professionisti che fino a ieri potevano vivere felicemente nel sottobosco dell'ambiguità e che oggi devono mettersi in regola formalmente e fiscalmente, ma anche il fin troppo ampio panorama di disoccupati intellettuali che hanno dovuto studiare, spendere e faticare non poco per conquistare il diritto ad esercitare una professione rispettabile.
Appartengo a coloro che per mantenersi rendendosi utili al prossimo hanno dovuto laurearsi, seguire numerosi costosi percorsi formativi e sostenere diversi esami e concorsi. Se fosse esistita questa legge già allora forse non l'avrei fatto; o forse sì. Ma oggi che in teoria sarei fra i privilegiati, non mi sento per questo defraudato di alcunché. Ora vorrei occuparmi esclusivamente della parte legata alla salute e alla cura di questi vecchi “nuovi” professionisti, dichiarandomi fin da subito fra coloro che difendono il proprio diritto di credere alle fiabe o alla comunità scientifica in tutta libertà, avendo nella mia non breve vita visto di tutto, ivi compreso le peggio nequizie da parte di fin troppo rispettabili consessi accademici o sanitari. Poi si viene ai clienti, e qui nascono due indirizzi di pensiero: vi sono quelli che temono la diffusione di pratiche selvagge e dannose e quelli che invece vedono riconosciuto il loro sacrosanto diritto a rivolgersi ai fornitori di servizi che più aggradano senza che un qualche organo di polizia decida quello che possono o meno fare e se siano più o meno sani di mente nel farlo.
Il fatto è che, come ben descritto da studi come “La nascita della clinica” di Michel Foucault, o “Nemesi Medica” di Ivan Illich, la medicalizzazione della società ha espropriato le persone occidentali della legittimità di esprimersi ad un'infinità di saperi, espropriando la materia di cui si occupavano per ascriverla al contesto terapeutico, ovvero imputando l’avvenuto a cause patologiche, in poche parole “malattie”. Questo senza che nessuno dei più attuali sistemi di legittimazione scientifico-epistemologica (da Popper in avanti) possa sentirsi riconosciuto.
Tuttavia, se vogliamo che siano rispettati i criteri degli “alternativi” bisogna fare altrettanto con quanti pensano che la malattia o il peccato siano all'origine della natura animale e quindi umana.
Chi non rispetto sono coloro che sfruttano l'affermazione, per quanto discutibile, del principio della patologia per esercitare la propria professione in veste medica o psicologica (che pure dovrebbero essere mondi molto diversi al di là di alcune sovrapposizioni), così come coloro che, per aiutare il prossimo che esprime un bisogno non riconosciuto come “malattia”, lo “convertono” ad una spiegazione di tipo terapeutico.
Sarebbe ora che, a partire proprio da queste professioni, si passasse a de-patologizzare tutte le domande che non abbiano un chiaro, ripetibile, sensorialmente e fisicamente basato (Galilei), oltre che falsificabile (Popper) agente patogeno. Perché solo in questo caso si può parlare di patologie e di conseguenza di terapia.
Se invece ci muoviamo nel dominio anche solo della sofferenza sia chiaro che ci troviamo nella normalità della condizione umana, per la quale la felicità o anche solo la tranquillità è una conquista e non lo standard. A questa sofferenza possono essere date risposte le più svariate, compreso quelle farmacologiche o chirurgiche anche se queste uktime devono essere somministrate solo da professionisti riconosciuti, così come le psicoterapie che si qualificano in quanto tali. Ma il dominio della sofferenza, in quanto espressione del vissuto e non dell'aggressione patogena, ha la sua naturale risposta nell’apparato della “cura”. Un concetto espresso alla perfezione dalla canzone di Battiato.
“Io avrò cura di te” è una frase che sta bene in bocca a chi ama, ai familiari, agli amici; fra i professionisti si addice più al badante o all'infermiere, all'educatore o all'insegnante che non al terapeuta. Forse al medico condotto di una volta, ma non certo all'ingranaggio del sistema sanitario di oggi. Nei fatti, fortunatamente, sono ancora molti i terapeuti che si “prendono cura” dei loro pazienti, ma questa è un'altra cosa.
Andiamo verso un mondo teso alla libertà e alla compassione e un domani comprenderemo che questi sono diritti di tutti e non di chi possiede un patentino, anche se ora è ancora troppo presto per promuoverli.
Per ora riflettiamo su un semplice fatto: la scienza e le pratiche (tecniche) sono domini complementari, ma nessuno dei due deriva direttamente dall'altro.
Solo nel mago o nel sapiente questi convivono senza richiedere legittimazioni. Tuttavia, ogni mago è depositario di una propria magia e le magie sono molte, compreso la medicina, che oggi si frammenta in centinaia di sotto-magie che, non solo non si conoscono fra loro, ma addirittura possono conoscere solo il minimo indispensabile della magia generale (che si insegna sempre meno nelle università assieme alla semeiotica medica, quella sensoriale, e alla storia della medicina).
Che male ci sarebbe a vivere in una civiltà dove per trovare degli sciamani, delle “persone di sapere”, non si debba necessariamente soltanto porsi obiettivi esotici o riconoscersi ammalati e dove anche il professionista riconosciuto possa sentirsi più libero di vivere il proprio peculiare sapere nell'estrema umiltà di una fede umana? In fondo il terapeuta è uno dei sapienti a cui, avendo per le mani la vita delle persone, viene richiesto di “sapere” più di tanti altri.
Non di meno negli altri angoli del mondo il sapiente, l'uomo di sapere, si chiama sciamano (etimologicamente isomorfo). Il “sapere” degli uomini di sapere di tutto il mondo è simile e al contempo diverso, ma altrettanto profondo, impegnativo e degno di rispetto al punto che chi ci vi avvicina scopre quanto la nostra scienza ci abbia impoveriti e di quanto difficile sia quello che trova in altri mondi di sapere.
Le preferenze politiche sarebbero meno influenzate dai partiti di quanto lo siano dalle esperienze infantili. O almeno così lascerebbe pensare una delle ricerche a dire il vero un po’ stereotipate che in questo periodo rinfrescano questo a dire il vero desueto tema che un tempo, in clima sessantottino, era rivolto alla cosiddetta “personalità autoritaria”
In questo articolo viene spiegato che i ricercatori avrebbero dedotto come un bambino che abbia sperimentato importanti spaventi o un’educazione autoritaria in famiglia entro i primi 6 anni, arrivato a 18 si troverebbe maggiormente propenso ad una mentalità conservatrice (da noi forse potremmo dire di destra o meglio ancora leghista) e quindi anche gerarchica ed incline all’autoritarismo.
Al contrario, quello cresciuto in una famiglia egualitaria svilupperebbe all’età del voto una propensione ad atteggiamenti liberal (potremmo dire di sinistra o progressisti).
Difficile poi dire se siano più autoritari finiani o bossiani piuttosto che grillini e dipietrini. Che volete farci, i ricercatori di oggi assomigliano un po’ alla società in cui viviamo: semplicistici, stereotipati, manichei e acritici.