«In certi sabati sera dopo il lavoro [mio papà] trovava, non so dove, la forza per proporre di andare giù al mare [«il mare, come ben sai, era per tutti noi la Liguria» (p. 21)]. Non c’era nemmeno ancora tutta l’autostrada. Era assai foravìa». (p. 20).
Comincia con un piccolo foravìa – letteralmente un andare fuori dalla via consueta -, anche il viaggio che porterà il protagonista da Ivrea alla collina tra Chivasso, Gassino e Cinzano.
«Quel giorno però non presi l’autostrada, perché mi avevi detto che conveniva passare il Po a Chivasso e quell’autostrada non passa a Chivasso, ci passa quella per Milano» (p. 19).
«Andando al lavoro la mattina [da Torino ad Ivrea], dopo uno scollinamento dell’autostrada, mi si apriva davanti la vista della collina morenica simile a un orizzonte più alto e vicino. Era la Serra. Il suo profilo retto e leggermente obliquo è emozionante, emana una nota misteriosa» (p. 19).
Quel giorno invece «guidando vedevo in lontananza di fronte a me la collina torinese, così diversa da quella morenica» (p. 22), e appartenente al sistema degli Appennini e non a quello delle Alpi (p. 8).
Le forze della terra sono come un gigante dal sonno leggero sulla pelle del quale si muove tutta la storia.
«I paesi che stavo attraversando alla guida della mia Uno non hanno certo l’aspetto di quelle cosiddette città-dormitorio industriali. Graziosi, raccolti ai loro centri strutturalmente simili l’un l’altro, puliti, qualche condominio […] per il resto case molto decorose […] e nuclei storici gradevoli, commoventi nei loro mattoni, negli archi e negli acciottolati antistanti le chiese non arroganti, ma ben presenti» (pp. 22-23).
Nei pensieri del viaggiatore anche il lavoro degli abitanti, forse a Torino oppure in loco, in piccole aziende dell’indotto metalmeccanico (le boite).
«Cominciai a salire sulla collina, da Gassino verso Cinzano», sentendo uno spostamento del sistema percettivo (p. 27).
Cade la notte, in un luogo sconosciuto e sperduto. Qui la terra, con il fango e i latrati degli animali selvatici, imprigiona l’auto e il suo guidatore fino all’alba.
Dopo alcune peripezie «ritornai di nuovo sull’asfaltata e salii fino al paese. Le prime abitazioni erano ancora sulla morbida salita, ma il resto del minuscolo abitato stava in piano e aveva una piccola radura, non proprio una piazza, su cui davano facciate bianche come appena passate a calce, di dimensioni che mi apparivano minime, tanto da dare un tocco fiabesco al paese» (p. 37).
La parte finale del racconto è ambientata a Torino. Il percorso verso la Biblioteca Civica inanella un reticolo di punti di riferimento, evidenziando una socialità lontana dallo stereotipo della grande realtà urbana.
Si comincia con il caffè, dove ferve «un seminario permanente di riflessione politica sull’attualità, di comunicazione sulla vita del quartiere e soprattutto di elaborazione filosofica, e anche etica a più voci» (p. 47)
La memoria personale e della città passa attraverso attività commerciali tuttora presenti ed altre scomparse, come Fermento, che aveva in vetrina birre e whisky rarissimi, comparati a stampe pregiate del tipografo Tallone (p. 50).
«Oltrepassai il luogo in cui un tempo esisteva il cinema Statuto, triste capitolo di vita civica […]. Eravamo liceali, all’epoca, no?» (pp. 50-51).
La storia famigliare, da cui origina l’elaborazione del foravìa, riemerge camminando sotto i portici della stazione di Porta Susa. «Pensavo […] a mio padre, con cui poco distante guardavamo scomparire il vapore della locomotiva che si infilava sotto il sovrappasso per poi ricomparire dall’altra parte di questo con il treno che tornava a cielo aperto, come in un gioco di prestigio» (p. 51).