Foravìa è un trittico di racconti di Dario Voltolini edito nel 2010 da Feltrinelli.
Lo scrittore torinese ha dato voce in molte sue opere alla “città”, fin dagli esordi con Una intuizione metropolitana (1990).
Foravìa, il racconto che apre e da il titolo alla raccolta, ha origine dall’esperienza vissuta dall’autore all’Olivetti di Ivrea, in particolare allo Speech & Language Lab., le cui sorti divengono lo specchio della crisi della storica azienda.
La realtà del quotidiano, descritta con precisione millimetrica, si apre e diviene lo spazio del foravìa (in dialetto, “inconsueto”), dello straniamento, che corre attraverso i diversi viaggi narrati: nella pancia della fabbrica, nello spazio geografico e geologico tra Ivrea e la collina torinese, nella notte in cui “il corpo della valle scatena i suoi anticorpi contro l’elemento virale” (p. 33), nel quartiere torinese intorno alla Biblioteca Civica, e nel tempo, che connette e separa i diversi piani della narrazione.
Foravia è un racconto in forma di lettera destinata a Luca Rastello, scritto nel 2008-9, al centro del quale sta un’avventura accaduta, misteriosamente, il 27 ottobre 1990. «Tu e io abbiamo appena finito uno scambio di mail che finirà su un prossimo numero della rivista “Il primo amore”. Adesso le interviste possiamo farle così. Allora non si poteva ancora. [Nessun cellulare, sito, account]. Ma tutto molto prossimo ad arrivare» (p. 12).
Nel 1990 l’io narrante lavora in un «ufficio per modo di dire. Ci avevano sistemati, noi reduci di un laboratorio smantellato, in un posto che si chiamava Ingresso Autorimessa, e questo era» (p. 7). Successivamente, già nell’era di Internet, «ormai ridotti a due superstiti ci avevano spostati ancora in un altro posto dentro gli enormi e sempre meno abitati edifici della fabbrica un tempo gloriosa» (p. 11).
Gli occhi del lettore seguono il protagonista nella sua esplorazione del corpo della fabbrica.
«Raggiungevo locali semidimenticati [risalenti all’]Età della Meccanica», dove macchinari mastodontici abbandonati, cavi, stampi «restavano in attesa di essere smaltiti, da chissà quanto tempo» (p. 13).
Dopo un passaggio in parti della fabbrica «oscure, fredde» egli giunge «in zone affollate, dove l’attività appariva talvolta frenetica», che rivelano, attraverso le parole carpite, «la tensione nervosa di chi si sente scivolare nell’impotenza, perché chi lavora in […] un’azienda di grandi dimensioni patisce in se stesso, a volte senza saperlo, l’andamento dell’intera azienda. E quell’azienda stava inoltrandosi nel nulla» (p. 14).
Una balconata interna «affacciava su un atrio molto ampio, su un lato del quale imperava la statua [dell’]industriale originario. Camillo[…]. Lì si tenevano le assemblee dove i sindacalisti lungamente producevano quel loro misterioso linguaggio lungo il quale a poco a poco la mente dell’ascoltatore si perde come in dormiveglia» (p. 15).
Ed ecco la fabbrica originaria: «Il mattone anziché il cemento, il legno anziché il profilato, i sussurri e non le invettive, persino certi vasi con piante accudite» (p. 16) tutto ciò conferiva «un’anima contemperata che addolciva tutta l’isteria maschile predominante» (p. 17).
Anche qui non manca l’attenzione per chi popola questi spazi. Contrastano con questo “hortus conclusus” «le nuove figure professionali esaltate da tanta retorica, come la direttrice del personale aggressiva, scosciata, scollata, liftata, dura, spietata, profumata o come la donna manager o la responsabile delle relazioni esterne, ircocervi del discorso, bufale» (p. 17).
Questo primo viaggio si conclude, dopo il girovagare e il consueto incontro con «l’uomo ventoso», all’ora di uscita (p. 18).
– Continua –