Compiti delle vacanze: spegnere il cervello è un diritto?

Ormai quel che è fatto è fatto. Le vacanze di Natale sono finite, si torna a scuola. Chi ha i pargoli alla scuola primaria (o anche qualche grado più su…) ha dovuto fare i conti con i fatidici compiti delle vacanze, tradizionale incombenza che aleggia spettrale a disturbare i giorni del meritato riposo. Tra i genitori è una gara a chi li esorcizza più efficacemente: “Noi li facciamo tutti subito così ci leviamo il pensiero e poi siamo liberi”; “No, noi li facciamo gli ultimi giorni così arriviamo con il ripasso fresco a scuola”; “Noi li facciamo programmando un’ora ogni giorno, così la fatica è distribuita e l’esercizio si mantiene, sebbene a scapito della spensieratezza del bambino e di quei necessari tempi vuoti”.
Ognuno, insomma, ha il suo metodo, che nasce da una serie di considerazioni che vanno dalle esigenze del bambino (l’approccio allo studio è estremamente soggettivo) alla volontà di assecondare i propri comodi, perché, diciamocelo, un po’ di vacanza – se non dal lavoro, almeno dalla routine – vogliamo farla anche noi.

Ma è proprio questo “noi” che suggerisce qualche considerazione, questo “facciamo i compiti”.
Perché i compiti delle vacanze, così come quelli infrasettimanali, non sono dei genitori, bensì del bambino. A lui il compito di farli, dunque.
Salvo i casi in cui ci siano serie difficoltà di apprendimento è una cattiva abitudine assistere sistematicamente il proprio figlio invece di dirgli semplicemente “Vai a fare i compiti” e lasciarlo a tu per tu con i suoi doveri. Conosco l’obiezione:“Se non mi metto anche io, non li fa!”. Ah no?
Nel rispetto della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e di tutte le carte e i manifesti redatti a tutela dei minori, mi permetto di suggerire due risposte al fanciullo renitente:
1) “Non ti alzi finché finisci. Puoi stare seduto anche cinque ore, pazienza se piangi” (non è contro il codice penale né moralmente riprovevole far fare un po’ di fatica a un bambino che ha un tetto caldo sulla testa, delle persone che lo amano, cibo, giochi e vestiti a volontà);
2) “Vai a scuola senza compiti, vediamo che cosa dicono i maestri” (nella speranza che i maestri se ne accorgano e prendano qualche provvedimento conseguente senza il terrore, sempre più frequente, di essere a loro volta aggrediti da genitori inferociti per l’oltraggio al sacro pargolo).

Il tutto sarebbe, però, ancora più semplice (e decisamente più “umano”) se si affrontasse il problema a monte. La scuola e i compiti sono una sadica tortura inflitta a ragazzini innocenti, una crudele anticipazione delle pene e delle ingiustizie che dovranno subire da adulti da cui dobbiamo proteggerli il più a lungo possibile? Oppure siamo noi ad averli percepiti così da ragazzini (magari per colpa di insegnati spenti e genitori stanchi, distratti o di bassa cultura) e oggi trasmettiamo ai nostri figli le reminiscenze di un approccio negativo verso un’attività che è di puro arricchimento? Oppure percepiamo noi così il nostro stesso lavoro (per chi ancora ce l’ha) e i compiti dei nostri figli sono ciò che in psicanalisi si definisce un transfert?
Urge un cambio di prospettiva!
La sparo grossa: lavorare è bello e risolvere un problema, fare un bel riassunto, imparare cose nuove di storia, geografia o scienze dà enorme soddisfazione e può essere anche divertente. Vaneggiamenti di un’ipocrita? Sogni ad occhi aperti di un’utopista? Per niente, solo la convinzione che una piccola rivoluzione debba nascere, prima che dai figli, proprio dai genitori. Che sbaglierebbero tutto se pensassero di potersela cavare con la solita ramanzina sull’importanza dello studio e della cultura, magari propinata con in mano il telecomando e un occhio alla tv, dopo uno sfogo su quanto è stata pesante la giornata. L’esempio è l’unica cosa che vedono i nostri figli. Se il papà ha più dimestichezza con la console che con un libro o un giornale (non sportivo possibilmente, con tutto il rispetto per la cronaca sportiva), la predica suonerà inutile come la sirena di un antifurto, un rumore di fondo a cui non dare peso.
Se siamo noi a sentire che i compiti “dobbiamo toglierceli”, se vogliamo solo appiccicare delle conoscenze in tempo per il rientro a scuola o se sentiamo la necessità di programmarli dando loro uno spazio specifico, un compartimento separato da quello che per noi è la vera vita, non aiutiamo i nostri figli.
I compiti devono essere parte del vissuto quotidiano, del bello del vivere e della normalità.
Bisogna rendere i compiti “divertenti” lavorando sulla bellezza dell’apprendere e dell’imparare. Che passa certo dalla scuola, ma, come gli stessi insegnanti non mancano di ribadire, soprattutto dal vissuto di casa: non lamentandosi davanti ai figli del lavoro, anche se duro; guardando film insieme e discutendone; leggendo una mappa stradale per raggiungere una località nel weekend; commentando il paesaggio che si vede dal finestrino; cucinando insieme una torta o facendo insieme ordine in cantina. E’ questo amore nel “fare” e nel “pensare” che li aiuterà nella scuola, più dell’assisterli nell’esecuzione di incarichi alla loro portata come sono i compiti, che spettano esclusivamente a loro.

Vi lascio con il consiglio della lettura di un volume del pedagogista Philippe Meirieu, ricco di spunti interessanti: “I compiti a casa. Genitori, figli, insegnanti: a ciascuno il suo ruolo” (Feltrinelli, 2002). Che ha un bel titolo nella premessa: “I brutti voti non sono una fatalità”.