Asili nido: istruzioni per l’uso

La notizia è tragica, ed è uno dei peggiori incubi di ogni genitore. Avete forse letto ieri della bambina di pochi mesi morta per un rigurgito di latte avvenuto durante il sonno mentre era all’asilo nido di Roma. La dinamica dei fatti non è ancora stata accertata: forse una drammatica ma semplice fatalità che segnerà per sempre la vita di quella famiglia e delle operatrici di un nido che a detta dei genitori intervistati è una buona struttura; forse una disattenzione nel mettere a dormire la piccola subito dopo averle dato il latte, senza sorvegliarla abbastanza.
Il lavoro di medici legali e inquirenti stabilirà la sequenza dei fatti, ma intanto cogliamo l’occasione per ricordare una serie di punti importanti da non sottovalutare nella scelta dell’asilo nido, luogo in cui per la tenerà età dei piccoli, ogni leggerezza può sprofondare nella cronaca più nera.

Il decalogo è stato stilato da Maria Rita Parsi, psicoterapeuta di fama e presidente della fondazione Movimento Bambino.
Tra i diversi punti, colpisce il secondo: accertarsi che il personale (che ovviamente deve essere qualificato, ma nei nidi privati sappiamo che può capitare che non lo sia) sia inquadrato regolarmente dal punto di vista lavorativo: “il precariato incide sul modus operandi di un insegnante, esasperando comportamenti e sottraendo energie”.

Alle dieci raccomandazioni aggiungerei anche: controllare che il rapporto bambini/operatrici sia congruo e i turni lavorativi adeguati.
Una insegnante che deve guardare dieci bambini più difficilmente tiene d’occhio la situazione di una che ne ha sei… Allo stesso modo un’insegnante che fa un turno di 8 ore – che è già lungo – sarà più pronta di una costretta a lavorarne 10. E questo, chi lavora nei nidi privati, sa che può capitare.

DIECI ACCORTEZZE DA NON TRASCURARE NELLA SCELTA DEL NIDO

1) Prima di iscrivere il bambino, curate di visitare l’asilo insieme, tutt’e due i genitori, per verificarne l’esposizione delle aule e dei luoghi di gioco, la pulizia, la “freschezza” e l’igiene delle strutture. Vivere le ore che trascorre lontano da casa in un ambiente bello, stimolante, pulito è determinante per il bimbo;

2) chiedere di conoscere gli operatori e i dirigenti dell’asilo, informandosi sul loro inquadramento lavorativo. Il precariato incide sul modus operandi di un insegnante, esasperando comportamenti e sottraendo energie.
Inoltre, un turnover continuo di maestre è pedagogicamente deleterio: il cambiamento repentino non è compreso dal bambino, che si vede sottrarre un proprio punto di riferimento, verso il quale ha sviluppato affetto e confidenza.  Ciò vale anche per i dirigenti: un loro avvicendamento in quanto precari potrebbe significare cambiare l’impostazione complessiva della struttura;

3) verificare che sia prevista la consulenza di un’equipe medico-psico-pedagogica, che garantisca assistenza ai piccoli alunni e ai loro genitori e agli stessi operatori;

4) informarsi se il corpo docente si sottoponga ad una formazione costante con collegamenti con le strutture del territorio, sì da interagire con Università e centri di formazione psico-pedagogici;

5) assicurarsi un accesso per i genitori garantito nell’arco della giornata, così come la possibilità per i nonni di visitarlo. Il bambino, infatti, non deve sentire la propria giornata segmentata, ma passare da nido a nido, dove non siano escluse le presenze familiari ed il calore del loro amore;

6) chiedere quali siano i giochi e le attività che il bambino segue durante la giornata: l’ideale sarebbe di poter disporre di un’agenda quotidiana, un “orario dei giochi e delle attività di gruppo”, che rendiconti l’azione pedagogica svolta;

7) controllare che siano previsti incontri almeno quindicinali fra educatori e genitori; la loro interazione è fondamentale nell’orientare l’azione pedagogica a scuola, ma anche a casa;

8 ) accertarsi che esistano schede personalizzate per ciascun bambino, ove sia riportata la sua storia, anche familiare. Ad esempio, se proviene da famiglia mononucleare, se è primogenito ed ha altri fratellini e sorelline; se è nato prematuro. Sono elementi preziosi per orientare l’approccio pedagogico.

9) se il bambino fa il tempo pieno, riscontrare che siano osservati i suoi momenti di riposo, giusto contrappunto all’impegno nell’apprendimento e nel gioco;

10) se il bimbo si trattiene a mangiare – ciò vale anche per le merende – chiedere il menu, informando la scuola di eventuali allergie o intolleranze alimentari e, al momento della visita iniziale, non dimenticare di esaminare la cucina; qualora la scuola fosse servita da un catering, chiedere di potervi accedere.

 

Falsi allarmi e dolori veri. Nel regno di Op

Magari è capitato anche a voi. A me sì, proprio ieri sera.
Mi arriva da un’amica un messaggio che inoltrava il seguente testo, a firma del sedicente responsabile della rianimazione di Savigliano: “Giralo per favore. Bimbo 17 mesi necessita sangue gruppo B positivo per leucemia fulminante, fai girare l’sms per favore è urgente. Inviala a tutti i tuoi numeri è importantissimo…”.
Chiamo la mia amica e le chiedo se è vero. Lei mi risponde dicendo che l’ha mandato un collega di Cuneo di suo marito, non può che esserlo! Telefono allora subito al numero indicato, che risulta staccato. Invio un sms, quindi, dicendo che quello è il mio gruppo sanguigno e sono disponibile alla donazione. Lascio il telefono acceso per la notte, ma non avendo trovato nulla al mattino, il sospetto prende forma.
Anche perché un sms analogo lo avevo ricevuto qualche anno prima. Il bimbo aveva sempre 17 mesi, il gruppo sanguigno era sempre quello. Ma quando si ricevono messaggi così non è che stai a pensare “sarà una bufala?”. Intanto rispondi, poi si vedrà.
Cerco dunque anche in rete la richiesta di aiuto e invece trovo la conferma di quanto immaginato: il direttore sanitario Giuseppe Guerra smentisce l’allarme che aveva fatto sì che in molti nel cuneese si fossero precipitati nella giornata all’ospedale per fare una donazione e il centralino del “Santissima Annunziata” fosse intasato dalle telefonate.
I carabinieri di Savigliano stanno indagando, e ci auguriamo che risalgano agli scellerati che abusano del buon cuore altrui (che viste le diverse manifestazioni di disponibilità, a quanto pare, ancora esiste, e di questo non possiamo che sentirci rassicurati, a dispetto della crisi non solo economica ma anche di valori).

Noi intanto troviamo lo spunto per segnalare un blog che da tempo volevamo suggerire, ma per il quale ci mancavano sempre le parole, palesemente inadeguate rispetto alle lacrime che scivolavano sulla tastiera, come a volerle cancellare.
Si chiama “Il regno di Op – storie incredibili dei bambini invincibili di oncologia pediatrica” (http://ilregnodiop.blogspot.com), e l’autrice è Paola Natalicchio, giornalista 33enne, mamma di un bimbo di pochi mesi ammalato di cancro.

Non aggiungo altro, ma vi invito a leggerlo tutto – i post non sono ancora moltissimi –, per la qualità della scrittura e per la profondità dei racconti di questo dolore vissuto per il proprio bambino e per i bambini degli altri.

Che solo una mamma può capire, ma non solo una mamma può immaginare. E che fa rispondere a un messaggio anche quando lo si intuiva palesemente falso.

bambini e mezzi pubblici

Se avete un figlio o una figlia di circa un metro di altezza e viaggiate sui mezzi pubblici, come la sottoscritta, allora forse è capitato anche a voi di chiedervi se si debba far pagare loro il biglietto oppure no.

La risposta è arrivata il 21 dicembre 2011, giorno in cui si è deliberato per l’aumento delle tariffe di abbonamenti e biglietti vari e si è anche, finalmente, deciso di accettare la proposta che da tempo era già in vigore in altre città italiane. Ovvero, se i vostri figli hanno meno di 11 anni, potranno usufruire dei mezzi pubblici senza pagare il biglietto, in compagnia di un adulto pagante. Questo perché difficilmente bambini con meno di undici anni viaggiano soli sui mezzi e quindi è l’adulto che si assume la responsabilità di pagare il documento di viaggio. Mi sembra ragionevole, no?

Quindi mia figlia, che sfiora il metro d’altezza, non dovrà più seguire la vecchia usanza, secondo la quale sotto i 100 cm non si paga e oltre il metro invece sì.

La petizione di Bimbibus si è anche fatta avanti richiedendo mezzi adeguati al trasporto dei passeggini. Il problema è reale. Coloro che si spostano in città su tram o bus e portano con sé la creatura in passeggino sanno bene che ci sono linee che usano ancora i vecchi mezzi (un esempio? La linea 33, a volte il 16 e forse voi ne conoscete altre…) e che quando tocca salire su questi autobus la fatica e la scomodità sono all’ordine del giorno. Per non parlare degli spazi in cui mettere fisicamente il passeggino, una volta in viaggio. Così la petizione aveva anche questo scopo, ovvero ottenere condizioni più agevoli per i viaggi con passeggino. Chissà se piano piano tutte le linee si attrezzeranno?

Vorrei lasciarvi con un paio di riflessioni. La prima riguarda non tanto le mamme con i passeggini, quanto piuttosto chi ha una disabilità e per tanto si ritrova a muoversi in sedia a rotelle, ma come fa a montare su certi mezzi pubblici? La seconda, invece, riguarda la gente in generale. Salgo sul pullman con il passeggino, porto mia figlia al nido, non ho l’auto. Appena mi faccio spazio verso un buco libero, vedo solo smorfie, sento gente sbuffare, qualcuno azzarda anche gentilezze bisbigliate tipo “mpf, ci mancava solo questa col passeggino…”.

A cosa servono dunque i mezzi pubblici?

La madre e il coraggio

Non so quante mamme, al suo posto, farebbero come Mara.

Mara è la madre di Giovanni Tizian, un giornalista freelance precario di ventinove anni costretto da due settimane a vivere sotto scorta per il suo lavoro di inchiesta sulle infiltrazioni della criminalità organizzata nel nostro paese, in particolare nel nord Italia, dove le mafie sono ormai da anni radicate e sufficientemente visibili sotto gli occhi di tutti, anche nella nostra sabauda regione, se solo si volesse guardarle.
La notizia è uscita solo oggi, ma giorni fa, quando Giovanni mi confidò il suo nuovo status (siamo colleghi non di lunga data, ma di intensa collaborazione… se volete saperne di più leggete anche qui: http://www.narcomafie.it/2012/01/11/io-mi-chiamo-giovanni-tizian-e-faccio-il-giornalista/), mi venne spontaneo chiedergli “Chissà tua mamma…”.
E invece no. “Lei mi fa coraggio e mi asseconda, come sempre cerca di darmi serenità”, fu la sua risposta.

Non so quante madri reagirebbero così. Non so quante di noi, di fronte a un figlio che lavora 15 ore al giorno per rimborsi ridicoli, occupandosi di temi così delicati, e che gli inquirenti convocano per dirgli che corre seri rischi e gli assegnano due uomini 24 ore al giorno, direbbero “Vai avanti” e non piuttosto “Molla tutto, accetta quel lavoro a tempo indeterminato che potresti avere e pensa alla tua vita”.

Tanto più che Mara di vicende ne ha passate. Nel 1988 la ‘ndrangheta, la mafia calabrese, incendia l’azienda di famiglia. Ma il peggio doveva ancora venire. Il 23 ottobre del 1989, Mara si troverà a dover crescere suo figlio da sola e a lasciare la sua terra dopo un tentativo di ricominciare. Sette anni aveva Giovanni quando a Locri, in Calabria, un clan ‘ndranghetista decretò la morte di suo padre Giuseppe, ucciso a colpi di lupara mentre tornava a casa dal lavoro. Giuseppe Tizian era un “integerrimo funzionario di banca”, come lo hanno descritto gli inquirenti che hanno investigato sulla morte, senza però riuscire a dimostrare l’ipotesi più realistica, e cioè che l’uomo si fosse opposto a manovre economiche non lecite che alcuni esponenti dell’organizzazione avrebbero preteso da parte dell’istituto di credito.
Giuseppe Tizian faceva solo bene il suo mestiere, e così oggi anche suo figlio Giovanni, che ventidue anni dopo, con il suo impegno, ne onora la memoria.

 

Compiti delle vacanze: spegnere il cervello è un diritto?

Ormai quel che è fatto è fatto. Le vacanze di Natale sono finite, si torna a scuola. Chi ha i pargoli alla scuola primaria (o anche qualche grado più su…) ha dovuto fare i conti con i fatidici compiti delle vacanze, tradizionale incombenza che aleggia spettrale a disturbare i giorni del meritato riposo. Tra i genitori è una gara a chi li esorcizza più efficacemente: “Noi li facciamo tutti subito così ci leviamo il pensiero e poi siamo liberi”; “No, noi li facciamo gli ultimi giorni così arriviamo con il ripasso fresco a scuola”; “Noi li facciamo programmando un’ora ogni giorno, così la fatica è distribuita e l’esercizio si mantiene, sebbene a scapito della spensieratezza del bambino e di quei necessari tempi vuoti”.
Ognuno, insomma, ha il suo metodo, che nasce da una serie di considerazioni che vanno dalle esigenze del bambino (l’approccio allo studio è estremamente soggettivo) alla volontà di assecondare i propri comodi, perché, diciamocelo, un po’ di vacanza – se non dal lavoro, almeno dalla routine – vogliamo farla anche noi.

Ma è proprio questo “noi” che suggerisce qualche considerazione, questo “facciamo i compiti”.
Perché i compiti delle vacanze, così come quelli infrasettimanali, non sono dei genitori, bensì del bambino. A lui il compito di farli, dunque.
Salvo i casi in cui ci siano serie difficoltà di apprendimento è una cattiva abitudine assistere sistematicamente il proprio figlio invece di dirgli semplicemente “Vai a fare i compiti” e lasciarlo a tu per tu con i suoi doveri. Conosco l’obiezione:“Se non mi metto anche io, non li fa!”. Ah no?
Nel rispetto della Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia e di tutte le carte e i manifesti redatti a tutela dei minori, mi permetto di suggerire due risposte al fanciullo renitente:
1) “Non ti alzi finché finisci. Puoi stare seduto anche cinque ore, pazienza se piangi” (non è contro il codice penale né moralmente riprovevole far fare un po’ di fatica a un bambino che ha un tetto caldo sulla testa, delle persone che lo amano, cibo, giochi e vestiti a volontà);
2) “Vai a scuola senza compiti, vediamo che cosa dicono i maestri” (nella speranza che i maestri se ne accorgano e prendano qualche provvedimento conseguente senza il terrore, sempre più frequente, di essere a loro volta aggrediti da genitori inferociti per l’oltraggio al sacro pargolo).

Il tutto sarebbe, però, ancora più semplice (e decisamente più “umano”) se si affrontasse il problema a monte. La scuola e i compiti sono una sadica tortura inflitta a ragazzini innocenti, una crudele anticipazione delle pene e delle ingiustizie che dovranno subire da adulti da cui dobbiamo proteggerli il più a lungo possibile? Oppure siamo noi ad averli percepiti così da ragazzini (magari per colpa di insegnati spenti e genitori stanchi, distratti o di bassa cultura) e oggi trasmettiamo ai nostri figli le reminiscenze di un approccio negativo verso un’attività che è di puro arricchimento? Oppure percepiamo noi così il nostro stesso lavoro (per chi ancora ce l’ha) e i compiti dei nostri figli sono ciò che in psicanalisi si definisce un transfert?
Urge un cambio di prospettiva!
La sparo grossa: lavorare è bello e risolvere un problema, fare un bel riassunto, imparare cose nuove di storia, geografia o scienze dà enorme soddisfazione e può essere anche divertente. Vaneggiamenti di un’ipocrita? Sogni ad occhi aperti di un’utopista? Per niente, solo la convinzione che una piccola rivoluzione debba nascere, prima che dai figli, proprio dai genitori. Che sbaglierebbero tutto se pensassero di potersela cavare con la solita ramanzina sull’importanza dello studio e della cultura, magari propinata con in mano il telecomando e un occhio alla tv, dopo uno sfogo su quanto è stata pesante la giornata. L’esempio è l’unica cosa che vedono i nostri figli. Se il papà ha più dimestichezza con la console che con un libro o un giornale (non sportivo possibilmente, con tutto il rispetto per la cronaca sportiva), la predica suonerà inutile come la sirena di un antifurto, un rumore di fondo a cui non dare peso.
Se siamo noi a sentire che i compiti “dobbiamo toglierceli”, se vogliamo solo appiccicare delle conoscenze in tempo per il rientro a scuola o se sentiamo la necessità di programmarli dando loro uno spazio specifico, un compartimento separato da quello che per noi è la vera vita, non aiutiamo i nostri figli.
I compiti devono essere parte del vissuto quotidiano, del bello del vivere e della normalità.
Bisogna rendere i compiti “divertenti” lavorando sulla bellezza dell’apprendere e dell’imparare. Che passa certo dalla scuola, ma, come gli stessi insegnanti non mancano di ribadire, soprattutto dal vissuto di casa: non lamentandosi davanti ai figli del lavoro, anche se duro; guardando film insieme e discutendone; leggendo una mappa stradale per raggiungere una località nel weekend; commentando il paesaggio che si vede dal finestrino; cucinando insieme una torta o facendo insieme ordine in cantina. E’ questo amore nel “fare” e nel “pensare” che li aiuterà nella scuola, più dell’assisterli nell’esecuzione di incarichi alla loro portata come sono i compiti, che spettano esclusivamente a loro.

Vi lascio con il consiglio della lettura di un volume del pedagogista Philippe Meirieu, ricco di spunti interessanti: “I compiti a casa. Genitori, figli, insegnanti: a ciascuno il suo ruolo” (Feltrinelli, 2002). Che ha un bel titolo nella premessa: “I brutti voti non sono una fatalità”.